venerdì 21 febbraio 2014

DEP & DAP LEXICON /16

                 Nel suo desiderio di sperimentarsi un giorno Q. decise di uscire dalla città. Se ne distaccò incerta, ansiosa, sforzandosi di ignorare il paso doble danzato da cuore e polmoni e sempre in compagnia dell’Altra che le parlava rassicurante.
-Tranquilla, stai tranquilla, respira, ecco vedi? L’aria arriva. Poca? Sì è poca ma basterà.
-Non c’è nessun all-black, se apri gli occhi te ne renderai conto.
-Su, stai andando in un luogo amico. Ce la farai; è un dono che ti fai.-
             Q. infatti tornava a chiedere udienza all’Imperatore Adriano, come un tempo faceva ogni anno, nella sua villa tiburtina.
Aveva sempre amato quel luogo perché vi respirava una fragranza speciale, quella del tempo e pensava che essere nata e vivere a Roma, malgrado i secoli e i millenni trascorsi, l’accomunava, sia pure in piccolissima parte, agli antichi abitatori e se ne sentiva concittadina; sentiva di essere romana in un modo diverso da quello più ovvio.                     Riconosceva la temerarietà, forse la stoltezza, di quel pensiero
ma non poteva del tutto ignorare che benché l’orbe avesse girato su se stesso quasi un milione di volte, qualcosa di uguale permaneva. Forse solo una vibrazione della luce, una sfumatura di colore al tramonto, qualche grido di uccello, il riverbero dei suoni nell’aria e il sentore che mandava la terra quando il vento d’Africa portava pioggia e sabbia.
             Poca cosa, forse. Ma non poi così poca per lei che viveva intensamente il tempo presente ma ne coglieva intera la profondità.
Del resto, vivendo, come viviamo, su un impasto di terra e morti, la scelta è fra due soli corni: lo sgomento o la reverenza. Lei aveva scelto la reverenza. E la gratitudine. E l’amicizia con il passato.
Questo dava profondità al suo presente.
                    A testimoniare quell’amicizia Q. si recava ogni anno alla villa adrianea che, ogni anno, la ripagava con la sua prodigiosa bellezza.
Ve la portava anche l’ammirazione per il grande imperatore, che era stato politico, viaggiatore e artista e che alla villa-città aveva dedicato il suo tempo e il suo studio.
         Quella mattina Q. sentiva ben presente nel suo spirito che quell’uomo aveva conosciuto il lutto, il dolore e il suo stesso male oscuro, il taedium vitae. Il grande Imperatore, l’uomo più potente della terra, era dovuto venire a patti con un nemico che nessuna legione poteva piegare e nessun trattato poteva convincere. L’uomo che soffre è il più regale degli uomini, questo pensava Q. e ora rendeva  omaggio a quell’uomo nella sua stessa casa. 
                  Era il primo mattino di una calda giornata estiva quando risalì il lungo viale di cipressi che porta allo sperone di colle su cui posano i resti maestosi della casa imperiale. Solo pochi e rispettosi visitatori si muovevano come lei, minuscole  figurine, sotto le volte immense, lungo i muri imponenti, sulle gradinate ormai sconnesse.
                Q. percorse i sentieri tra gli olivi e gli allori, camminò sul basalto vecchio di secoli, si specchiò nelle acque del bacino  del Canopo, quasi un lago dove cigni e anatre scivolavano lenti. Camminava commossa tra le rovine miti e serene, cercando le tracce della vita che vi si era svolta, un’eco degli spettacoli teatrali, delle conversazioni di filosofi e poeti, dei concerti, delle cerimonie religiose. Il silenzio della città imperiale li includeva, i muri scabri li rimandavano.
                  Era la voce della continuità, della morte che si prolunga nella vita: su quel colle ancora le viti offrivano la stessa uva pizzutella, poco lontano ancora si sentiva l’odore acre delle acquae albule, nelle campagne tutto intorno tra rovine sparse non ancora indagate da storici e archeologi, greggi di pecore brucavano le erbe cresciute sulle vie lastricate, sulle piazze una volta marmoree. Era un messaggio di vita ed era un messaggio di morte. Q. avvertiva  insieme l’impermanenza delle nostre vite e la permanenza della vita.
                  Tra le erbe che ormai coprivano i mosaici della Piazza d’oro osò chinarsi a raccogliere una piccolissima scheggia di lapis tiburtinus, il travertino locale, di un bianco tinto di grigio, scabro, poroso, un po’ tagliente sull’orlo: due cm. per tre di passato, ma anche di presente. Quel travertino nei secoli ha continuato ad abbellire la città di Roma, chiese, palazzi, piazze, colonnati, e ancora oggi è la materia di ville di audace post-modernità architettonica.
           Q. non si accorse neanche del suo respiro regolare, del silenzio dell’Altra, del suo stesso passo tranquillo. Non avrebbe saputo dire se fosse un dono del milligrammo di benzodiazepina preventivamente assunto per attraversare l’anello di fuoco del G.R.A. o della squisita ospitalità dell’Imperatore.
Quanta bellezza era andata perduta nei secoli, ma quanta ne sarebbe risorta? Questo era il pensiero che accompagnava Q. in quel vagare tra morte e vita, ospite del passato ma anche del futuro.

              Oggi la scheggia raccolta tra malva e erbe di campo, lavata e rilavata, spazzolata delicatamente, è sullo scrittoio di Q. come prova del suo piccolo misfatto, ma anche ricordo di quel giorno di ridosso in cui il male oscuro sembrò dimenticarsi di lei. Il lettore non gridi alla vittoria: non vengano pronunciate parole come risanamente o guarigione. Ma quel giorno e la sua traccia pietrosa nella storia di Q. sono come un punto luminoso, un piccolo nucleo di speranza.
(Continua-16)

Nessun commento:

Posta un commento

Non c'è niente di più anonimo di un Anonimo